
M’AMA o NON M’AMA?
Margherita, così come si fa giocando con i petali del fiore di cui porta il nome, continua a chiedersi:
“m’ama o non m’ama?”
Attiva controlli, ricerca costantemente attenzioni, evita il più possibile situazioni esterne che possano mettere la sua relazione in pericolo, cercando di passare tutto il tempo disponibile, tranne quello lavorativo (unico tempo giustificabile), sempre insieme al suo partner. Margherita crede fortemente che solo se staranno sempre insieme potrà fidarsi davvero di lui, senza rendersi conto che il pensiero disfunzionale che le sue azioni alimentano è: “posso fidarmi solo se controllo”. Questo tipo di pensiero è di per sé paradossale, se sento il bisogno di controllare non c’è fiducia. Iniziare a riconoscere questo è estremamente imbarazzante per Margherita, ma solo riconoscendo una parte di sé, spaventata e diffidente, potrà davvero aiutarsi a vivere con fiducia la sua relazione.
“Margherita dove hai imparato che fiducia è sinonimo di controllo e che amore è sinonimo di possesso?”
I suoi occhi si riempiono di lacrime, congelate e incapaci di uscire, che racchiudono ricordi dolorosi di lei e i suoi genitori.
Solo ritrovando la bambina che è stata inizia a dare un senso alla sua diffidenza e all’ossessione del controllo. Nel presente inizia finalmente a riconoscere che non le piace il modo di relazionarsi con il suo partner, mentre prima lo considerava l’unico modo e soprattutto quello giusto. Tuttavia per risolvere il problema del suo presente ha bisogno di lavorare in parallelo anche sul suo passato, riconoscendo a poco a poco che il gioco del “m’ama non m’ama” che rivolge al suo partner è lo stesso gioco d’amore disperato che ha rivolto verso la sua mamma e il suo papà. È una forma di riscatto per quella bambina ferita. Si, proprio così; finalmente riesce a dire a sé stessa che da bambina non si è sentita mai davvero amata e riconosce la voce interna che le sussurra “qualunque bambina è preferibile a te”, sentendosi sbagliata, difettosa e inferiore. Ha imparato con il tempo a dirsi che era colpa sua se non si sentiva abbastanza amata, mai la prima scelta; solo assumendosene la colpa, poteva continuare a provare modi nuovi e diversi per ottenere quel tanto desiderato amore.
Solo guardando questa triste verità può dare un senso al suo problema attuale e capire che la sua gelosia di oggi ha un senso, ma che per risolverla davvero è necessario cambiare la domanda del suo gioco preferito: da “m’ama o non m’ama?” A “m’amo non m’amo?”.
Per scoprire dolorosamente “no, non m’amo”, non sentendosi mai abbastanza amabile esattamente come da piccola. Così Margherita impara lentamente a guardare la bambina che è stata, a legittimare le sue sensazioni, a guardare le sue figure genitoriali con gli occhi di tutti quei bisogni inascoltati, per iniziare faticosamente a metterla sotto le ali della protezione della sua parte adulta, imparando a dirsi “ci sono io,qui, per te” .
Margherita, oggi, in terapia sta riscrivendo la storia di sé stessa perché solo imparando a dirsi “M’AMO!” potrà interrompere il suo gioco relazionale e potrà amare con fiducia.
Margherita sta scoprendo l’ovvio, nascosto dal suo punto cieco, ovvero che l’unico modo per poter amare davvero qualcun’altro è amarsi. E per poterlo fare è necessario elaborare il lutto del non essere stati amati per ciò che si era e realizzare, dolorosamente, l’irrimediabilita della perdita.
“La ferita di tutte la più profonda – quella di non essere stati amati per ciò che si era – non può sanarsi senza l’elaborazione del lutto.” Alice Miller
Margherita è una giovane adulta, ma la storia che viene curata nella stanza di terapia è quella della bambina ferita che è stata e che ancora piange dentro di lei.
Solo curando la ferita di quella bambina potrà risolvere definitivamente l’insicurezza della donna che è diventata.
.
“Non possiamo cambiare neppure una virgola del nostro passato, né cancellare i danni che ci furono inflitti nell’infanzia.
Possiamo però cambiare noi stessi,”riparare i guasti”, riacquisire la nostra integrità perduta. Possiamo far questo nel momento in cui decidiamo di osservare più da vicino le conoscenze che riguardano gli eventi passati e che sono memorizzate nel nostro corpo, per accostarle alla nostra coscienza.
Si tratta indubbiamente di una strada impervia, ma è l’unica che ci dia la possibilità di abbandonare infine la prigione invisibile – e tuttavia così crudele – dell’infanzia e di trasformarci, da vittime inconsapevoli del passato, in individui responsabili che conoscono la propria storia e hanno imparato a convivere con essa”
(Alice Miller)
Un percorso doloroso, difficile ma possibile.